“E’ bellissima l’idea dello scambio di fragilità visto come scambio di forza di vivere: così la fragilità si colora di forza, vive e si fa storia.”
Vittorino Andreoli, L’uomo di vetro, Rizzoli 2008
Siamo fin troppo abituati per cultura (non per natura) ad attribuire alla parola “fragilità” connotazioni negative legate alla debolezza, alla vulnerabilità, all’insicurezza. Questo, nella nostra mente “occidentale” (lineare, e non circolare, causale e non olistica) ci conduce a vedere tali aspetti soltanto come caratteristiche negative di cui, se fosse mai possibile, liberarsi. E invece? Invece, i nostri occhi hanno bisogno di concedersi la possibilità di percepire le sfumature, hanno bisogno di cominciare a osservare i “panorami” che la vita offre in tutte le sue sfaccettature, non soltanto il bianco o il nero, o porzioni di vedute circoscritte; tutti i nostri sensi vanno liberati dalla gabbia delle categorie linguistiche che, per necessità espressive, costringono e limitano il nostro sentire.
Questa premessa mi consente di creare una “finestra” da cui guardare il mondo e le caratteristiche dell’essere umano da una prospettiva diversa. Se iniziamo a consederare la fragilità del genere umano come un presupposto della sua forza e, quindi, come un accesso alla scoperta delle sue risorse, è possibile dare spazio al contatto autentico con noi stessi, senza le paure che solitamente accompagnano questa intima esplorazione di sé.
Sulla capacità delle persone di prendere coscienza e gestire la propria fragilità si struttura una più o meno buona qualità della vita. La fragilità è, infatti, una componente forte della vita umana, è fragile il nostro equilibrio fisico e psicologico. I periodi e le situazioni di “disordine” nella vita fanno parte di ognuno di noi. Ogni sistema vivente vive e si evolve passando dal disordine all’ordine, dal caos all’equilibrio, ma si tratta di un equilibrio che non può mai essere definito stabile. “E’ bello ricordarsi che Gaia, la terra che ci ospita, è un pianeta e il significato di questa parola è “errante”. Siamo “erranti” in un mondo “errante”. Ma anche dentro di noi, cosa c’è di “stabile”? Davvero poco.” (A. Cascioli “Omaggio alla fragilità).
Queste considerazioni ci conducono alla consapevolezza della complessità e del cambiamento come esperienze imprescindibili del nostro “stare adesso nel mondo”. Il nostro corpo, per esempio, è l’insieme armonico di miliardi di cellule provenienti da un’unica cellula uovo fecondata da uno spermatozoo. Si tratta di cellule che si rinnovano continuamente, vivendo in una relazione stretta con le esperienze e la qualità della nostra vita a tal punto da essere in grado di trasmettere alle generazioni future, secondo l’epigenetica, quello che si apprende dalle esperienze quotidiane, senza modificare la struttura del nostro DNA. In pratica, significa che tutte le nostre conquiste, tutti i nostri successi restano impressi biologicamente, non vanno perduti. Quindi, non soltanto hanno dato consistenza alla nostra personalità e al nostro modo di essere, ma potranno avvantaggiare geneticamente, per esempio, i nostri figli a cui abbiamo trasmesso i nostri geni. Del resto, è su questo che si fonda l’evoluzionismo darwiniano: sopravvivono e si evolvono gli organismi maggiormente adattabili alle circostanze ambientali avverse in cui si sono imbattuti nel corso della loro esistenza. Ed ecco che compaiono nuove risorse per gestire meglio le avversità. La fragilità non scomparirà, ma farà da trampolino per acquisire nuova forza, spinta per la crescita e lo sviluppo (“Ad astra per aspera” dicevano i latini).
Tutto è movimento, tutto è cambiamento, non esiste niente di fisso e immutabile, tutto risuona e muta. E’, quindi, con maggior leggerezza che è importante affrontare la vita, prendendo per mano la nostra “fragilità”. La vita semplice non lo è mai, ma un po’ più semplici (diverso da superficiali) potremmo essere noi, se guardassimo la vita con più purezza, con uno sguardo non condizionato, ma capace di dare senso a ciò che è percepibile, un approccio fenomenologico (“fàinomenon”, in greco, è ciò che appare, ciò che si manifesta).
Per trovare se stessi bisogna perdersi: periodi di confusione, inquietudine, sbandamento, perdita dei propri riferimenti, sono normali e ci permettono di conoscerci sempre di più acquisendo nuove consapevolezze su di sé. Solo stando fermi non si perde la via, non si sbanda. Ma da fermi non si evolve, non si cresce, e soprattutto si diventa rigidi, e un elemento rigido non può essere sottoposto agli eventi stressanti che la quotidianità ci mette davanti, si spezzerebbe. Occorre flessibilità, e la flessibilità ci riconduce al movimento, e questo, appunto, alla fragilità come spinta alla vita!“Nessuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e la nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e fortemente sentire la sua piccolezza”, ci dice Giacomo Leopardi.
A proposito di Leopardi, Alessandro D’Avenia nel suo “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita” dice che “ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi sensi erano finissimi, da “predatore di felicità”. A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla Terra; per questo ebbe un destino scelto e non subito, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi, e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni”.
Dott.ssa Irina Boscagli
Psicologa Psicoterapeuta a Firenze
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